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Steph Curry, l’Mvp non convenzionale che vuole raggiungere i “magnifici 13”

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Stephen Curry

Mentre scriviamo Hasheem Thabeet ha completato la sua ultima stagione ai Rio Grande Vipers, affiliata degli Houston Rockets in D-league. Nella lega di sviluppo vige una sola regola: ognuno per sé. Metteteci che i Vipers estremizzano i principi chiave della casa madre, tipo un’ossessiva ricerca del tiro da tre (tipo 50 tentativi a partita), e capirete che per il gigantesco centro tanzaniano si sono visti tempi migliori.

Johnny Flinn ha passato l’ultima stagione a Capo d’Orlando. La sua New York e i 1500 minuti in Nba un ricordo lontano a differenza degli infortuni, che hanno continuato a falcidiarlo. Così quel proclama il giorno della sua presentazione: “Vi farò divertire, come ho fatto in Nba” è apparso in un attimo ironicamente grottesco.
C’è stato un tempo in cui però sia Thabeet che Flinn erano considerati migliori (o quantomeno più funzionali) di Steph Curry.

Troppo gracile, troppo piccolo, troppo mono dimensionale si diceva e così quello che oggi è l’Mvp della RS, finì dietro pure a Rubio, uno che forse è cestisticamente l’antitesi di Steph in un Draft dove i Grizzlies presero tre point guard ma colpevolmente lo dimenticarono.
Così il giocatore meno convenzionale finì nelle mani dell’allenatore meno convenzionale, Don Nelson. Nelson che fece se vogliamo una scelta ancora più fuori dalle sue abitudini, lui che aveva sempre preferito svezzare lunghi. Ma la storia di Steph è stata fuori dai canoni già dagli inizi. L’idea classica della star Nba è o un assoluto predestinato seguito dalle telecamere già a tredici anni (pronto LeBron?) o l’affascinante talento “maudit”, cresciuto in strada e dalla storia dura alle spalle. Ebbene Curry non è stato né l’una né l’altra cosa. Nato ad Akron, Ohio, dove è nato pure Lebron e dove probabilmente farò nascere pure mio figlio visti i risultati casa per Curry è stata Charlotte. E che casa! 6

ettari sei stanze da letto piscina d’ordinanza e mobili etnici. Gerald Wallace, altro ex Hornets, che la rileverà ci aggiungerà pure una miriade di teleschermi, ma questa è un’altra storia. La madre di Curry era una devota cristiana, che creerà un collegio seguendo i precetti di Maria Montessori e lì si formerà il figlio, non esattamente insomma l’humus in cui è cresciuto un Caron Butler, insomma. Eppure il talento c’è sempre stato, nonostante il fisico. A Toronto, alle medie, la squadra di ragazzini guidati da uno Steph già capace di attentare ai 50 non perde mai e anche alla scuola montessoriana fa già i suoi numeri.

Nessuno è troppo convinto però delle sue capacità, per alcuni può diventare al massimo uno specialista da tre, un Korver o un doppione di suo padre. Resta in Nord Carolina all’Università, ma non nelle storiche Duke-North Carolina e neanche nella rampante Wake Forest ma nella scalcinata Davidson di McKillop che non vince una gara Ncaa da quarant’anni. Steph cresce e con lui la squadra, sfiora l’impresa un anno ma perde di due con Kansas, poi vincitrice del titolo ma lui non si fa prendere dagli isterismi, come al solito. Curry è maturo già nelle interviste, abituato a parlare coi media già a quattordici anni ma non è un personaggio. Cammina e tira in campo nei pre partita come faceva Kobe, ma non è appariscente, non parla mentre tira come faceva Marbury. Suo padre è Dell Curry, ex sesto uomo con la mirabolante percentuale del 40% da tre, e ora capite l’importanza della genetica.
Arrivato in Nba Curry ha fatto un percorso chiaro e netto e, come in tutta la sua carriera finora, ha continuato sui binari di un miglioramento costante. E’rimasta la semplicità apparente del suo gioco ma è aumentata la velocità in tutto quello che fa. Oggi è sempre più la reincarnazione di Maravich, ma ha trovato sempre squadre e situazioni in cui le sue caratteristiche venivano esaltate al massimo.

Può bastare questo contro LeBron? Se ce la facesse sfaterebbe l’ennesimo tabù. Sono solo tredici infatti i detentori del premio di Mvp della Rs capaci nello stesso anno di concludere con il titolo. L’ultimo a riuscirci è stato proprio James, spezzando un incantesimo che durava da dieci stagioni ma con lui a fare la doppietta c’è tutto il gotha della palla a spicchi. Si va dagli invitati d’obbligo al club Russell e MJ, con quattro volte a testa, a Bird e Shaq, capaci di ripetere l’impresa due volte. Con loro tutta l’aristocrazia gialloviola da Wilt a Magic fino a Abdul-Jabbar e altri che completano questo roster dei sogni a tredici elementi. Curry vuole fargli compagnia. A dimostrarlo le prestazioni di tutto l’anno ma a titolo esemplificativo si veda gara tre della serie appena finita con Houston. Bastano i numeri: E’ il primo giocatore per triple segnate in una post season che non è ancora finita (scalzato un Reggie Miller a cui in qualcosa somiglia). Alla fine 51 dei 92 punti di Golden State erano colpa sua, a fronte dei 61 degli altri. E’il terzo giocatore negli ultimi 30 anni a mettere insieme almeno 30 punti e 5 assist in tutti i primi tre incontri di una finale di Conference, dopo Tim Duncan e LeBron James (tutti e due tra i magnifici 13). Se non vi bastasse sappiate che è l’unico, con Michael Jordan, capace di segnare 5 triple, 40 punti e tirare con il 55% dal campo in una finale di Conference.
Quando ero bambino un mio amico più grande ebbe in regalo una Playstation e quindi regalò a me il suo vecchio Snes. Tra i giochi c’era “Nba Hangtime”, si potevano scegliere solo due giocatori da una rosa di sei e adoravo metterla da tre. Tra le squadre che finivo per scegliere più spesso c’erano gli Hornets che proponevano bocche di fuoco come Rice e appunto D.Curry (oltre a guerrieri come Divac e il compianto Mason). Oggi a Nba 2k scelgo per gli stessi motivi Golden State e c’è sempre un Curry di mezzo, abbiamo già vinto svariati campionati ma credo che a Steph importi il giusto, lui vuole quello vero per raggiungere l’Olimpo in compagnia degli altri maginifici 13.

Photo: Keith Allison

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