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Il vento freddo della Windy City

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BULLSSi può nello spazio di ore vedersi sfuggire un record di quelli che si usano per vantarsi nelle discussioni da bar, e, nello stesso tempo, concludere nel peggiore dei modi una stagione comunque fallimentare? Lo psicodramma è andato in onda a Chicago, Illinois. I Bulls non sono più la sola squadra ad aver avuto un record che dice 72-10 (e non è colpa loro) e da stanotte sono pure fuori dalla post season, per la prima volta dal 2008 e qui la colpa è soprattutto dei Bulls, o meglio di molte persone legate alla franchigia, oltre che ad altri fattori.

 

Quando hanno chiesto, qualche settimana fa,  a Tom Thibodeau se la sua ex squadra alla fine avrebbe fatto i playoff la risposta è stata un secco “no” e questa reazione non era dettata da alcuna invidia o risentimento. Si è capito quando gli hanno chiesto il perchè della risposta: Thib ha dato la colpa all’infortunio che ha messo fuori gioco all’inizio Noah e poi ha rimarcato anche la maggior competitività della conference nell’anno di grazia 2016. Il coach, forse in un rigurgito di affetto verso la sua ex squadra, ha individuato sicuramente due fattori ma, forse per eleganza, non ha citato altri problemi che hanno egualmente concorso al flop della francigia dell’illinois.

Durante il regno del coach vincitore di un anello da assistente nei Celtics spesso si era parlato di Bulls eccessivamente injury-prone. Vista la tendenza di Thibodeau a “spremere” i suoi giocatori era facile dare la colpa al coach della marea di infortuni che costantemente pregiudicavano qualsiasi ambizione di titolo. Ancora una volta il basket si è dimostrato per quelo che è: un’ equazione un pò più complicata di: cambio l’allenatore così non ho più infortuni, premesso che questa non era l’ unica ragione alla base del cambio.

L’infermeria dei Bulls ha continuato durante tutto l’anno ad essere piena come un’Apple Store il giorno della messa in commercio del nuovo I-Phone. Jimmy Butler fuori un mese e mezzo nel momento cruciale, Mike Dunleavy, che sorprendentemente è importante negli equilibri di questa squadra che, già quando c’era Beli, ha dimostrato di avere necessità di un tiratore con determinate caratteristiche, ha saltato le prime 49 gare oltre al già citato Noah e a un Rose su cui bisognerebbe dedicarsi  ad una disamina più accurata di: quest’anno ha giocato tot minuti in tot gare. Poi a giro, sarà il freddo di Chicago, è capitato a tutti di saltare un giro ogni tanto.

Quindi i Bulls hanno perso il treno per una salute cagionevole, sarebbe pronto a dire il famoso osservatore superficiale delle vicende rosse. Come anticipato non è così.

Gli infortuni arriavano per fortuna (a volte) ma soprattutto anche per fattori che col fato c’entrano il giusto. In estate la dirigenza dei Bulls ha fatto finta di dimenticare la data di nascita dei suoi giocatori e il loro decorso. Non si spiegherebbe altrimenti la scelta del Gm Foreman di confermare quanto Gasol sia un cardine dei prossimi Bulls. Nessuno mette in dubbio le enormi qualità dello spagnolo ma definirlo un “core piece” a trentasei anni suonati forse è beffarsi di madre natura. Nella stagione in cui gli Spurs hanno definitivamente e in maniera indolore completato la transizione dall’era Duncan all’era Leonard, i Bulls hanno testardamente continuato a credere che un gruppo insieme da anni potesse fare un improbabile salto in avanti senza risentire dell’imperituro logorio della vita (e della Nba) moderna.

Il discorso non è ovviamente l’apporto di un Gasol o di un Noah su singola partita che può essere ancora devastante ma sul lungo periodo. Lo raccontano i numeri di una stagione iniziata con 22 vittorie e 12 sconfitte, un record tutto sommato in linea con  le aspettative, ma sceso in picchiata inesorabilmente quando il contachilometri dei tori ha iniziato a presentare numeri pesanti. I Bulls hanno dimostrato di vivere in un clamoroso paradosso (non l’unico in questa stagione) riuscendo a dare il meglio quando la pressione si alzava e l’esperienza e la qualità potevano al meglio sopperire alle deficienze sul piano atletico. Il risultato è che Butler e compagni vanno in vacanza in anticipo nonostante un record di 7-1 contro le prime due classificate della Conference, “es decir” Cavs e Raptors. Si sarebbe entrati nei playoff se Butler non avesse dovuto abbandonare la contesa sul più bello? Quasi certamente sì ma questo non avrebbe cambiato molto le prospettive e, forse, avrebbe nascosto solo problemi sotto il tappeto. Problemi che sono emersi durante tutta la stagione: problemi di comunicazione che ha evidenziato comprensibilmente in primis il nuovo coach Hoiberg, quando a inizio stagione ha detto che l’idea di partire dalla panchina fosse stata dello stesso Noah, salvo poi essere smentito dal figlio di Yannick. Dopo una sconfitta a New York Butler, che comunque era abituato a Thib, ha criticato gli allenamenti “molli” del coach fortemente appggiato dal front office. Certo Hoiberg ci ha messo del suo nel perfere sul finale un pò la fiducia dei giocatori se è vero che per motivarli ha scelto di mostrare una clip da “Scemo è più Scemo”, non esattamente “Ogni maledetta domenica”. Sul campo il basket dinamico dell’ex coach di Iowa State si è scontrato con problemi strutturali di un roster vecchio e incapace per caratteristiche a rinunciare a un certo approccio difensivo per avere un attacco maggiormente dinamico senza soffrirne. L’equivoco Rose è poi rimasto tale: Rose può essere un buon giocatore? la risposta è sicuramente sì. Se la domanda è però se Rose possa tornare “quel” Rose si rischia di aspettare Godot e Chicago, conti alla mano,non se lo può permettere se in futuro non vuole essere quei Philadelphia Sixers con cui si confronterà nell’ultima partita un match che, probabilmente, potrebbe essere riassunto come “Mille differenti modi per provare tristezza”, se avete un League Pass utilizzatelo per altro.

Photo by Kevin Tao