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Miroslav Raduljica a tutto tondo “mi piace anche passare la palla, dà il senso dello sport di squadra”

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Miroslav Raduljica 20-10-2016

Lunga intervista di Miroslav Raduljica al Corriere della Sera, dove attraversa il Miroslav fuori dal campo e quello dentro il campo. Una cosa è certa: non è un personaggio banale

Raduljica, non si può dire che in campo sia difficile notarla…
«Perché sono bravo, dice?…» (risata).
Intanto perché è enorme, come a Milano non se ne vedevano da tempo. E poi per i suoi tatuaggi e soprattutto per la barba lunga e folta.
«Le piace? Fa molto biker».
E lei è anche motociclista?
«Solo durante l’estate. Il contratto vieta di salire in moto. A malincuore, mi tocca rispettarlo».
Esistono tracce di lei senza barba?
«Ci sono un paio di foto su Instagram. Ma ero giovanissimo, appena ho potuto me la sono fatta crescere. Anche mio padre ha i baffi. E mio zio. Frequentavano ambienti motociclistici, si vede che la loro passione mi è rimasta addosso».
La barba le dà un’aria da duro. È voluto?
«Mi piace questa cosa di dare un’impressione diversa da come sono davvero. Uno mi vede con questa barba, i tatuaggi, il fisico massiccio e pensa tutto il male possibile, poi mi conosce e scopre che rido in continuazione. E ogni volta mi dicono: ma sai che ti facevo molto diverso? Questione di look…».
Assieme a quella di James Harden, lei ha una delle barbe più famose del basket.
«Dopo che con gli Usa mi ha battuto nella finale mondiale 2014, gli ho scritto che la mia barba è più bella della sua».
E lui che cosa ha risposto?
«Niente, ma la sua medaglia era più bella della mia».
Harden ai Giochi di Rio non c’era, ma anche lì avete perso in finale con gli Usa.
«E ancora faccio fatica a digerire quella sconfitta. Abbiamo perso per colpa nostra. Nel girone eliminatorio siamo stati lì lì per batterli. Sasha Djordjevic, il nostro allenatore, dopo la finale del 2014 ce l’aveva detto: ragazzi, siete forti, tra due anni ci ritroveremo con loro in finale».
Ci aveva visto giusto. Ma dopo la finale di Rio che cosa vi ha detto?
«Ecco, questo è meglio non ripeterlo…» (risata).
Che cos’è per lei Djordjevic?
«È tutto. È un allenatore, è un fratello maggiore, è un amico. Ha fatto di me un giocatore migliore, anzi un uomo migliore».
Naturalmente lei sa che Djordjevic a Milano è considerato un’istituzione…
«Naturalmente».
Le ha dato qualche dritta?
«Non servivano. Qui ho sentito una bella energia, mi sono trovato benissimo. Come se conoscessi tutti da tempo».
Qualcuno in effetti lo conosceva già.
«Macvan è mio compagno in Nazionale. Anche Simon e Dragic sono vecchie conoscenze».
Serbi, croati, sloveni… un bel miscuglio.
«Nel basket parliamo la stessa lingua. Stessa mentalità, stessa scuola, stesso sistema».
Come procede l’ambientamento in Italia?
«Direi molto bene. Come sempre, quando si cambia, serve un periodo d’adattamento, ma le sensazioni sono buone. Sto cercando di capire la lingua, guardo la tv in italiano e i film con i sottotitoli. Se vivo in un Paese, voglio entrare nella mentalità di auel Paese».
Ha fatto così anche in Cina?
«Ci ho provato, certo».
Come ci è finito lei a giocare in Cina?
«Uscivo da un’esperienza non felicissima nella Nba, a Milwaukee, l’ho vissuta come un’ottima opportunità per migliorarmi individualmente».
Le piace viaggiare?
«Molto. È una mia passione. Lo considero il modo migliore per conoscere altre culture e aprirsi alla gente».
Altre passioni?
«Mi piace leggere libri e, come dicevo, mi piace girare sulla mia Harley Davidson».
Parliamo di libri.
«Avevo in casa una parete piena di libri, ho cominciato a leggere a 5 anni. Mi piace la sensazione tattile della carta, l’odore dei libri usati».
Autore preferito?
«Stephen King. Lo divoro. Lo vede questo tatuaggio? È la torre nera, quella della collana di racconti. Non me ne sono perso uno».
Parliamo di moto.
«Non di moto, di Harley. È un’altra cosa, è di più. Viaggiare sulla mia Harley mi dà un grande senso di libertà».
Confessi: ha accettato di giocare a Milwaukee solo perché è la città dell’Harley Davidson…
«Posso confessare che la prima cosa che ho fatto è stata visitare il museo Harley: sono stati molto gentili, finito il giro mi hanno portato nel retro e mi hanno mostrato la Fat Boy originale usata da Schwarzenegger in Terminator».
Sa che Milano si aspetta molto da lei?
«So quanto valgo, voglio darvi il miglior Raduljica».
Punti forti?
«Mi piace fare canestro, a chi non piace? Ma mi piace anche passare la palla, dà il senso dello sport di squadra: un bell’assist mi dà soddisfazione quanto un bel canestro. E quando ricevo un assist, mi piace indicare il compagno: è un segnale anche visivo».
È vero che in difesa deve ancora lavorare molto?
«No» (risata).
Lei sa che c’è chi la pensa un po’ diversamente da lei...
«È una cospirazione contro di me» (nuova risata).
Addirittura?
«Diciamo che quando si appiccica un’etichetta, poi è difficile toglierla. Potrei giocare 30 partite dando 10 stoppate e prendendo 15 rimbalzi ogni volta, ma resterei sempre quello che non difende».
C’è un’etichetta che accetterebbe?
«Una sì: Raduljica, quello che vince»