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NBA – Golden State Warriors, storia di una debacle (non) annunciata

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14557443151 5180040914 zVincere è l’unica cosa che conta… se questo noto proverbio di matrice calcistica indubbiamente ha la sua valenza, è altresì vero che giudicare una squadra solo dal risultato finale risulterebbe totalmente fallace. Questa stagione NBA infatti, nonostante dei playoff fino alle finali di conference abbastanza sottotono, sarà ricordata non solo per i Cleveland Cavaliers campioni e in grado di ribaltare un deficit di 1-3 e senza fattore campo nelle finals, ma anche per i grandi sconfitti, quei Golden State Warriors capaci di riscrivere la storia di questa lega con un record di 73-9 in regular season, cancellando dagli annali i Bulls di His Airness Jordan.

Una squadra campione in carica e con questo pedigree non avremmo mai immaginato potesse avere incrinature ed invece nel corso dei playoff qualcosa ha iniziato a scricchiolare, a partire dalle sicurezze del suo emblema Stephen Curry.

Quale può essere stata allora la causa di questa debacle (non) annunciata?

Cerchiamo di analizzare il gioco dei Warriors, un gioco che come pochi è riuscito a dividere puristi e innovatori di questo fantastico gioco.

Le fantastiche caratteristiche balistiche degli Splash Brothers e l’affidabilità da oltre l’arco di altri giocatori del roster hanno reso quasi doveroso polarizzare le azioni offensive tra tiro da 3 e appoggi al ferro – nei momenti in cui le difese avversarie estremizzavano la loro copertura del parquet lasciando il pitturato scoperto. In regular season i Warriors hanno raggiunto statistiche fuori dal comune: 115 punti realizzati a partita a fronte dei 104 subiti e rating offensivo di 114,5, il tutto tirando con il 41% da dietro l’arco. Queste cifre hanno cambiato il modo di pensare il gioco, tanto è vero che una delle chiavi della vittoria dei Cavs è stata proprio la maggiore predisposizione a tirare da dietro l’arco di Irving ma soprattutto di James.

Appare lampante che questa modalità di gioco è altamente produttiva: tirare con il 40% da 3 equivale sostanzialmente a tirare con il 60% da 2 (percentuale difficilmente ottenibile alternando conclusioni al ferro e mid-range), ma è anche vero che dipende molto di più dalle abilità degli interpreti. Il playbook di Golden State è quindi difficilmente replicabile, può (e forse deve) essere preso come spunto ma non può (e sicuramente non deve) essere copiato pedissequamente.

La pecca della squadra di Kerr è stata allora probabilmente quella di non rodare in regular season un piano B, in quanto nei momenti di impasse del gioco erano spesso Thompson e Curry a togliere le castagne dal fuoco con quelle che il nostro Gianluca Basile definiva “triple ignoranti”. Una volta giunti ai playoff, dove le difese si stringono e il livello sale inesorabilmente, il canestro, che prima era ampio quanto una vasca da bagno, è diventato piccolo quanto una buca da golf; ciò ha influito non solo sui punti segnati, ma anche su quelli subiti, permettendo agli avversari un maggior numero di conclusioni da rimbalzo difensivo e con maggiore flusso.

Golden State con questo asset a disposizione non dovrà snaturare il proprio playbook, ma dovrà cercare soluzioni alternative allorquando le difese avversarie si stringono sui tiratori, chiedendo magari alla propria stella di fare un ulteriore passo verso il gotha (e se anche un MVP all’unanimità ha da migliorare, ciò dimostra la difficoltà di questa lega), affinando le sue skills nel playmaking, pressoché deficitarie durante le finals.

 

Stefano Minerba