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Nba Finals: l’Incoronazione

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Si compie, finalmente, il destino del Prescelto, l’uomo che nove anni fa entrò nella Lega con la prospettiva – ed il peso – di diventare l’erede di Jordan quanto ad impatto sul gioco. Lebron James conquista il suo primo anello, quasi oscurando nei titoli il secondo per gli Heat, coronando i suoi playoff con la tripla doppia e con una prova da padrone assoluto della franchigia e della Lega. Gara 5 non ha mai avuto storia, troppo grande la volontà degli Heat di chiudere qui la serie e portare a casa l’agognato trofeo. Eroica – e non si tratta di iperbole, viste le condizioni fisiche – la prova di Mike Miller (23, con l’irreale 7/8 dall’arco),  con un efficace Bosh (24 e 7 rimbalzi), dalla ritrovata fisicità, a dare sostanza nel pitturato. Con Chalmers (10, 2/4 da tre 7assist) e Battier (11, 3/7 dai 7.25) puntuali dal perimetro (14/26 di squadra per gli Heat) e Dwyane Wade (20, con 8 rimbalzi e 3 assist) che ha dispensato lampi della sua classe, interpretando fino in fondo il ruolo di gregario di (extra)lusso, Miami non ha mai neppure pensato di poterla perdere.

Il tutto davanti a dei Thunder spaesati, troppo brutti per non aver ceduto prima di tutto sul piano mentale, dopo le occasioni perse nella serie. Il solo Durant (32p e 11r, ma anche 7 perse) prova ad illuminare la serata, ma né Westbrook (20, raccolti soprattutto in lunetta, a fronte del 4/20 dal campo) che ha mostrato il suo lato oscuro, né Harden (19 messi assieme perlopiù a babbo morto), uscito dalla serie dopo i primi due episodi, hanno saputo trovare le chiavi della partita. Ma ciò che gli uomini di Brooks hanno letteralmente smarrito è la coesione di squadra, giocando ognuno secondo il proprio spartito, cosa che ha generato sconquassi soprattutto nella propria metà campo, dove spesso si incrociavano sguardi interrogativi su errori anche imbarazzanti. Rivedibili, peraltro, alcune scelte del coach, quando, ad esempio, come in gara 4, ha dislocato Durant sulle tracce (ovvero in media a tre metri di distanza) di Chalmers, per paura dei falli. Risultato: rotazioni confuse, che hanno finito col rimettere il prodotto di Kansas nella serie, insieme al resto del cast di supporto, esiziale dall’arco. Così pure il poco spazio concesso a Nick Collison, chiaramente l’unico a capirci qualcosa dietro, con Ibaka e Perkins totalmente fuori contesto, ha dato adito a motivate perplessità. Senza una difesa efficace, i Thunder non sono più stati in grado di produrre l’abituale ritmo offensivo, abbandonando presto la partita sotto i colpi degli avversari.

In cronaca. Pronti via e Lebron spazza via qualsiasi dubbio sui crampi con la prima affondata in campo aperto. Miami ha chiaramente più ritmo in attacco, corre quando può, mentre a difesa schierata sfrutta molto bene, come in tutta la serie, i tagli dal lato debole. Due ‘and 1’ di James tracciano il primo solco tra le squadre, 16-10 a metà frazione. La difesa di OKC non convince sugli aiuti, sempre in ritardo, ed è al limite dell’incomprensibile sui close-out, lasciando ai tiratori in maglia bianca metri di spazio. Piovono due triple di un commovente Mike Miller, presto imitato da Cole e se il divario non è più ampio lo si deve a Durant, che con il punto esclamativo tiene lì i suoi a –5, 31-26, alla prima sirena.

Secondo quarto. Nonostante la difesa si stacchi dai tiratori, i Thunder non ne conseguono grande vantaggio in termini di protezione dell’area. Lebron, contro Harden, mostra di poter andare al ferro quando vuole, Bosh si muove bene negli spazi e si fa sentire in vernice, mentre dal perimetro ancora Miller e Chalmers portano il vantaggio in doppia cifra. Il terzo fallo di Wade spaventa la Triple A, ma le squadre hanno un linguaggio del corpo troppo diverso. La quarta tripla di Miller dall’angolo e LBJ in contropiede spezzano in  due il match, OKC beve dall’idrante e affonda a –17, 53-36, oltretutto beffata da un impressionante serie di palloni in&out. Collison, unico a garantire letture difensive di qualità, chiude qualche falla dietro e subito i Thunder ne beneficiano, ritrovando ritmo in transizione. Il Barba lucra un paio di viaggi in lunetta, prima che il solito KD rialzi la testa riportando i suoi a –10 all’intervallo lungo, ma con la chiara sensazione di essere appesi ad un filo.

Ancora il 35 mostra i denti in avvio di ripresa, con la tripla e l’assist a Ibaka firma il –5, ma Battier e Chalmers dal perimetro, grazie a due scarichi griffati Lebron, ristabiliscono le distanze. I Thunder provano ad opporre resistenza, ma la breve fiammata di Westbrook e Ibaka, nonostante un altro paio di perle di Durant, non basta a fermare la marea. James regala ottavo e nono assist a Battier dall’arco e a Bosh in area per il 2+1, poco dopo trova il flagrant di Fisher, che gli piazza un blocco football mentre è lanciato a canestro, senza peraltro scalfirlo più di tanto. E’ il segnale della resa: gli Heat incendiano l’Arena, con Bosh e Miller (quinta tripla) a colpire da lontano, mentre il Re va in doppia cifra con le monete. All’ultimo mini-riposo è 95-71, ma già tutti, per motivi diversi, aspettano la sirena finale.

Il quarto periodo è un lungo garbage time, aperto dalla sesta e settima tripla di un immenso Miller. Per OKC, Harden e Fisher, molti minuti anche oggi, considerata l’efficacia, mettono a posto qualche statistica, per quel che vale, prima che le panchine inizino a svuotarsi. E’ il momento dell’Incoronazione, la celebrazione di un momento a lungo atteso, con James che termina spossato dalle emozioni, più che dallo sforzo atletico.

Ma è la vittoria di tutta l’organizzazione Heat, da Riley in giù, il primo mattone di quella che aspira ad imporsi come nuova dinastia nella Lega. Perché da oggi per l’Nba inizia una nuova era, passando, anche in termini mediatici, da ‘the Quest’, la caccia all’anello, a ‘the Kingdom’, il Regno di Lebron, la cui durata e prolificità occuperanno le cronache dei prossimi anni, benché i cinque anelli di Bryant o i sei di Jordan (per citarne due a caso) siano ancora lontani.

Stefano Mocerino

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