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Dear Kobe, thank you

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“Hey, non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa”. Ricordate questa celebre frase, pronunciata da Will Smith a suo figlio, nel film ‘La ricerca della felicità’? Beh, in quella manciata di parole è sintetizzata la mentalità con cui Kobe Bryant ha affrontato ogni singolo attimo della sua ineguagliabile carriera.
La notizia del suo ritiro era nell’aria da tempo. Era la classica voce di corridoio fastidiosa,

pedante e straziante, quella che preferisci ignorare, sperando che non venga mai e poi mai confermata. Ecco perché la lettera di congedo del Black Mamba ha colpito così tanto: tutti sapevano che il momento dell’addio era vicino, tutti sapevano che sarebbe arrivato, ma tutti, comunque, si auguravano che arrivasse il più tardi possibile.
Forse, è giusto così. Ad un certo punto, la lettera recita: “…but my body knows it’s time to say goodbye”. Non ha mai voluto ammettere che il tempo passa anche per lui, ma, adesso, è costretto a ritrattare: il suo corpo non ce la fa più, ha dato tutto ciò che aveva. E prosegue dicendo “that’s OK”, va tutto bene. Dunque, la maturazione può considerarsi completa e definitiva: ammettere i propri limiti, arrendersi allo scorrere inesorabile degli anni è segno che, al culmine di un’epopea ventennale, all’istinto feroce del giocatore assetato di vittoria, sopraggiunge la saggezza di chi ne ha vissute tante, troppe.
Dalle accuse di stupro mosse nei suoi confronti nell’ormai lontano 2003, al rapporto mai decollato con Dwight Howard, passando per la quasi romantica dicotomia con Shaquille O’Neal negli anni del three peat. Tuttavia, può ritenersi soddisfatto. L’ultimo grande traguardo raggiunto è probabilmente quello che lo ha ossessionato di più: 14 dicembre, Target Center di Minneapolis. Bryant raggiunge quota 32293 punti in carriera divenendo il terzo realizzatore più prolifico di tutti i tempi, superando Lui, Michael Jeffrey Jordan. Inutile dilungarsi in paragoni sciocchi e poveri di significato; dall’altra parte dell’oceano, in situazioni come questa, direbbero: ‘stop comparing and just appreciate greatness’.
Non è stato un compagno di squadra facile da digerire. Insomma, non era quello con cui dopo l’allenamento vai a bere una birra ghiacciata, per usare un eufemismo, ma la sua voglia di primeggiare, il suo ‘love of the game’, gli hanno fatto guadagnare il rispetto di tutti, specie degli avversari, e il segreto del suo successo è stato proprio quello di aver mantenuto costante la sua passione per il gioco, esplosagli dentro “when I was a child”, come lui stesso dice nella lettera.
“How many kids can say growing up that they’ll turn pro and play for their favorite team in the world and spend your entire career there?” strozza Kobe, nella conferenza stampa post sconfitta (l’ennesima) contro i Pacers di questa notte, ribadendo, se mai fosse in dubbio, che continuerà a lavorare (“keep pushing”) fino alla fine della stagione.
Il basket ha dato molto a Kobe Bryant, ma Bryant ha dato moltissimo al basket, ed è per questo che ‘Dear Kobe, thank you’, grazie di tutto.

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