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Come Kevin Durant è diventato il nuovo sportivo più odiato d’America

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durantQuest’anno Lebron James ha vinto il titolo, completando con successo quindi quella narrativa che lo voleva campione a casa sua dopo il ritorno da figliol prodigo. Questo risultato ha definitivamente tolto Lebron da quella posizione di giocatore più odiato d’America cui era stato sommariamente destinato dal suo arrivo in Nba ma soprattutto dopo la mal gestita Decisione. La narrativa della Nba aveva ora bisogno di un altro “cattivo”, un altro campione che anteponesse il suo successo a valori come lealtà e riconoscenza, per la verità destinati ad essere piuttosto posticci nel mondo sportivo. Kevin Durant si è immolato decidendo di aderire perfettamente a questo personaggio ma i motivi della sua scelta sono razionali e spiegabili e forse, ancora di più per questo, cozzano contro i sentimenti, di per sè irrazionali dei tifosi.

“Quando ci vai vicino poi fa più male e ti porta a farti più domande sul tuo futuro”. Parole e musica di Chris Bosh al microfono di Ben Simmons per spiegare quale sia stata la molla che ha convinto Kevin Durant a lasciare i Thunder per unirsi alla compagnia dell’anello conosciuta come Golden State Warriors dopo che, questo è l’unica cosa abbastanza chiara lasciata trasparire da KD, a playoff iniziati non aveva ancora idea di cosa volesse fare.

Credere però che il semplice risiultato di un match possa far completamente pendere la bilancia da una parte piuttosto che dall’altra è semplicistico, anche se sicuramente ha influito assieme ad altri fattori interni ed esterni.

Un fattore che molti escludono è quello economico. KD, dopo essere diventato la prima star del basket nelle mani di Jay-Z (la cui agenzia ne gestisce gli interessi), aveva già fatto intendere la sua voglia di diventare un brand riconoscibile anche fuori dal campo di gioco. In questo momento la Bay Arena rappresenta un mercato sicuramente più ampio e paradossalmente Durant nella nuova realtà non ha un personaggio a livello mediatico capace di oscurarlo quanto Westbrook fuori dal campo, lo stesso Curry ha fatto del suo essere ordinario il suo cavallo di battaglia.

Ci sono poi le spinte esterne degli sponsor che hanno giocato sicuramente un ruolo importante, in primis “lo” sponsor: Nike. Durant partiva da una certezza nel momento in cui decideva di esplorare la free agency: avrebbe avuto un max contract a prescindere da quale squadra avrebbe scelto. Per massimizzare i guadagni però bisogna ascoltare anche gli sponsor e quelli dello swoosh, che gli procurano le scarpette un consiglio neanche troppo spassionato devono averlo dato.

Golden State è infatti uno dei pochi team che è sotto l’egida del nuovo che avanza, Under Armour, che ha come portabandiera proprio Stephen Wardell Curry. Inserire un atleta “Nike” pesante nella squadra più cool del pianeta era necessario per un brand che si appresta a fornire le divise a tutta la lega tra due anni e che doveva confermare la sua egemonia.

Il business è qualcosa che muove tante cose, in primis una macchina come la Nba e di riflesso i suoi atleti, ma la sua natura pragmatica è difficilmente spiegabile ai fruitori dello sport che si sentono inevitabilmente traditi. Sentirsi traditi per soldi può essere un buon motivo per additare lo sportivo come il più odiato d’America ma c’è dell’altro.

Dal punto squisitamente tecnico c’è poco da svelare. Kevin Durant ha scelto la squadra probabilmente più forte, dove potrà presumbilmente prendersi anche delle pause nell’arco di una stagione e in cui non gli verrà chiesto di essere un leader, non un leader vocale almeno, cosa che KD non vuole (e probabilmente non può)essere.

E’nella migliore squadra e, qualora anche le cose andassero male, la squadra potrebbe e avrebbe tutta l’intenzione di continuare a spendere, per una serie di fattori difficilmente ripetibili, anche in futuro. In più ha un allenatore capace di elevarlo semplicemente come giocatore.

Tanti hanno accomunato la decision di Lebron a quella di KD ma forse la scelta del nativo di Washinghton lo espone a critiche e processi sommari anche più del predecessore per certi versi.

Lebron lasciava infatti una squadra con cui era chiaro a tutti non sarebbe riuscito ad andare oltre. Aveva spremuto tutto da quei Cavs e probabilmente non avrebbe potuto vincere un titolo con i Pavlovic e i Gibson. L’epilgo della scorsa stagione invece ha lasciato a tutti la sensazione che quel nucleo potesse avere le carte in regola per fare l’ultimo passo, per dare ancora di più. Durant andandosene ha dato il via alla distruzione del castello di sabbia, è stato la prima ondata, cui sono seguite altre e cui probabilmente arriverà anche un’altra che distruggerà definitivamente tutto (la cessione di Westbrook).

Durant va poi in una squadra più forte di quanto fossero gli Heat al momento dell’arrivo di James. Quegli Heat dovevano affidare il playmaking a Carlos Arroyo e anche i tre tenori dovevano comunque trovare il modo di giocare assieme (e ci avrebbero messo tempo).Durant si inserisce invece in un team con una determinata fisionomia e una determinata cultura creatasi negli anni. Nella nazione che esalta chi comincia dal basso anche il successo facile o la sua semplice ricerca viene sostanzialmente ridimensionato. Differentemente da Lebron, infine, Durant ha accettato di declassarsi, di andare in una squadra anche a fare il secondo violino pur di vincere. Anche qui il confine tra umilità e mancanza di coraggio si fa labile per gli osservatori esterni.

Quanto importi a un tipo così ermetico come KD di aver fatto alzare sopraccigli? Presumibilmente poco anche perchè alla fine l’unica cosa che resta, come diceva qualcuno, sono i “banners” o, più volgarmente, i titoli.

PHOTO BY: KEITH ALLISON