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Euroleague, Il fallimento dell’Olimpia Milano impone riflessioni che non possono essere più ignorate

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Jasmi Repesa

Finisce nel peggiore dei modi l’esperienza europea dell’Olimpia Milano, che chiude perdendo malamente contro Kazan assicurandosi così l’ultimo posto in classifica.

La delusione non è solo il risultato ma la mancanza di reazione e di orgoglio in un momento che, pur dal significato relativo, era importante per mandare un segnale anche in ottica futura evitando l’ultimo posto.

Eh si perchè non va dimenticato che con tre ultimi posti in 10 anni l’Eurolega si riserva il diritto di revocare la licenza decennale, quindi mantenere la casellina degli ultimi posto sullo zero avrebbe avuto si un significato.
Certo, la regola è volutamente ambigua, ed è difficile immaginare Bertomeu che esclude Giorgio Armani dalla massima competizione europea, tuttavia è sempre meglio evitare.

Il bilancio degli ultimi due anni di Eurolega è desolante. Stagione 15-16 da 3-7 con ultimo posto in regular season a pari merito col Limoges (seguirà poi eliminazione ai quarti di finale di Eurocup contro Trento). Stagione 16-17, la prima della nuova massacrante Eurolega: ultimo posto, 8-22 di record, 10 sconfitte consecutive nel pieno della manifestazione, desolanti sconfitte anche contro avversarie più che abbordabili.

Eppure questa Eurolega era iniziata bene, sconfiggendo il Maccabi, con Ricky Hickman Mvp. Poi il vuoto. L’incapacità di reagire alle difficoltà è emersa senza pietà, seguita da svariate delusioni tecniche e da una sequela di infortuni micidiali, tuttavia avvenuti a buoi ormai scappati.
Ma a deludere, come ieri sera, sono stati principalmente atteggiamento e mancanza di idee.

Al termine di un biennio fallimentare è il tempo delle inevitabili riflessioni su un progetto tecnico che non può e non deve limitarsi al campo italiano.
La prima cosa che l’Olimpia deve evitare è quella di ricadere nella logica del capro espiatorio (nel caso Jasmin Repesa). Indubbia responsabilità della guida tecnica nel fallimento europeo, tuttavia questo non deve deresponsabilizzare le restanti componenti, che spaziano dai singoli giocatori fino alla dirigenza societaria. Perchè una grande società si rialza dai fallimenti mettendosi in discussione dal primo all’ultimo. Dai giocatori deludenti fino ai dirigenti che li hanno messi insieme passando per chi li allena.

Indubbiamente si tratta di un progetto tecnico fallito che ha si raccolto risultati in campo italiano (con merito, va riconosciuto) ma che ambiva a ben altro ed è inutile nasconderlo. Permangono perplessità sulla difficile gestione di un roster lungo, ma anche sulla costruzione e l’evoluzione del roster. A partire dal caso Alessandro Gentile, passando per la costosa delusione di Miroslav Raduljica, arrivando fino all’incostanza di Rakim Sanders.
Non basta accontentarsi della reazione di cuore italiana (Cinciarini-Pascolo su tutti) o del cuore di Milan Macvan, il fallimento è di squadra in quanto è mancata l’espressione di un gioco fluido e convincente, anche a causa di problemi di costruzione del roster che inevitabilmente vanno imputati a chi ha costruito il roster stesso.

E adesso? Cosa fare?

Adesso c’è uno scudetto che Milano non può non vincere (e attenzione, le similitudini col Banchi-Bis iniziano a essere troppe) per chiudere la stagione con l’ennesimo titolo italiano che salva almeno in parte la stagione, ma che non deve nascondere i problemi sotto un tappeto.

Perchè l’estate sarà rovente, a partire dal contratto in essere di Gentile, arrivando al futuro di Raduljica che ha un garantito anche per la prossima stagione.

L’Olimpia ha bisogno di stare unita, di lavorare ma soprattutto di tanta umiltà e non solo in campo.